mercoledì 25 settembre 2013

Ma di cosa stiamo parlando? Ovvero...è possibile comunicare veramente?

Mi occupo di comunicazione e anche di pittura. Di solito i temi sulla comunicazione che affronto, sono quelli della comunicazione interpersonale, dell’interazione faccia a faccia. In questi ultimi giorni curiosamente (ma non troppo), “l’incontro” con alcuni libri mi ha portato a fare una riflessione decisamente stimolante sulla comunicazione di massa.
Stavo approfondendo stili e movimenti pittorici e , mentre leggevo alcuni testi sulla pop art, Andy Warhol, Lichtenstein, Wesselman e i loro messaggi, ecco che riscopro nella mia libreria un testo di Mario Perniola, professore di estetica all’università di Roma e di Kyoto. Il titolo del libro: “Contro la comunicazione”. Il libro di Perniola tratta della comunicazione massmediatica e la pop art si occupa dei miti e del linguaggio della comunicazione di massa. Mi sembra una coincidenza interessante! E soprattutto mi sembra uno spunto per approfondire l’argomento. Insomma il procedimento è quello dell’entrata casuale che si utilizza nel pensiero creativo.
Comunicazione vs Conoscenza? … o Conoscenza vs Comunicazione?
Sulla copertina del libro di Perniola è riportata questa frase: “La comunicazione è l’opposto della conoscenza. E’ nemica delle idee perché le è essenziale dissolvere tutti i contenuti. L’alternativa è un modo di fare basato su memoria e immaginazione, su un disinteresse interessato che non fugge il mondo ma lo muove.”
La comunicazione massmediatica, la cui influenza si estende anche alla cultura, alla politica e all’arte, sembra la bacchetta magica che trasforma l’inconcludenza, la ritrattazione e la confusione da fattori di debolezza in prove di forza. Nel suo rivolgersi direttamente al pubblico, saltando tutte le mediazioni, essa ha un’apparenza democratica, ma è in realtà una forzatura che omologa tutte le differenze..
Per sostenere la sua teoria, l’autore del libro ci racconta quelle che lui chiama tre storiette sulla comunicazione che, adesso che vi ho incuriosito, vi riporterò fedelmente.
La prima riguarda un seminario sulle nuove tecnologie. Dopo quattro ore di accesa discussione, alla quale parteciparono una ventina di operatori culturali di varie professioni e competenze, uno di questi esclamò, provocando un breve sconcerto fra i presenti: “ma di cosa stiamo parlando?”. La domanda non ricevette risposta; tutti la ritennero irrilevante e la discussione continuò per altre quattro ore. Ripreso integralmente con la videocamera, il seminario diventò parte di un corso di new media venduto ad alto costo in dvd.

La seconda storietta riguarda invece la performance del capo di un partito. Questi fece un’affermazione pubblica provocatoria e aggressiva nei confronti di un gruppo socio-professionale, cosa che suscitò in molti scandalo e indignazione. Dopo poche ore ritornò sull’argomento ritrattando parzialmente la propria dichiarazione. Il giorno dopo sostenne che la frase incriminata era scherzosa e del tutto priva di intenzioni offensive. In serata affermò che essa conteneva in ogni caso una parte di verità. Il terzo giorno disse che era stato interpretato male. Nel pomeriggio aggiunse infine che si era solo fatto portavoce di un’opinione molto diffusa, che non condivideva. Tuttavia fu per tre giorni alla ribalta dei mass media.
La terza storietta ha per protagonista un tycoon dell’arte contemporanea, il quale riuscì finalmente ad aprire nel luogo più prestigioso della capitale la sua nuova galleria permanente, accompagnando l’evento con una campagna pubblicitaria senza precedenti. Mosso dall’intento di rendere davvero popolare l’arte contemporanea, raccolse in lussuosissime sale opere di artisti di tendenze e orientamenti quanto mai diversi, che avevano in comune la caratteristica di non richiedere alcun intervento interpretativo: nella sua strategia infatti, la nuova arte doveva colpire lo spettatore per il suo carattere diretto e realistico. I visitatori della galleria, il cui prezzo d’ingresso era considerevolmente elevato, raggiungevano così il duplice risultato di divertirsi come in un luna park e di partecipare a un rituale elitario.”
Ma vogliamo, per favore, iniziare a comunicare veramente?!… Andy Warhol ci offre un bello spunto…
Da queste storiette si giunge alla conclusione della trasformazione della comunicazione massmediatica, così apparentemente democratica in ideologia, in qualcosa che trasforma tutto in indefinito, in qualcosa in cui gli opposti si mescolano e si confondono, in un contesto in cui tutto può essere contemporaneamente una cosa, il suo contrario e anche tutto quello che ci sta in mezzo.
La comunicazione, continua Perniola, abolisce il messaggio, non attraverso il suo occultamento, e quindi rendendolo segreto, ma attraverso un’esposizione esorbitante e sfrenata di tutte le sue varianti. Nel segreto c’è un contenuto da preservare; la comunicazione invece mira al dissolvimento di tutti i contenuti.
Lascio Mario Perniola per tornare alle mie letture sulla pop art. La pop art (letteralmente arte popolare) prende il via da un nuovo panorama sociale che coincide con il boom economico sviluppatosi negli USA fra il 1959 e il 1970. Le forme espressive di questo movimento artistico nascono prelevando oggetti e immagini da una realtà che è quella del boom economico, caratterizzata da una forte domanda di beni di consumo, di intrattenimento, spettacolo e cultura che portano all’avanzare di una società sempre più omologata, in modo esponenziale.
Erano gli anni settanta, ora siamo nel 2005 e non siamo certo in un periodo di boom economico. Sull’omologazione della società quanto è cambiato? Eppure se ne è discusso tanto…. “Molto rumore per nulla!?” (tanto per citare anche Schakespeare!)
Tornando alla pop art Andy Warhol è certamente il più conosciuto fra gli artisti pop. Nella mia riflessione siamo passati dalla comunicazione attraverso le parole alla comunicazione attraverso le immagini, di cui indubbiamente Warhol è maestro.
Wharol entra nel mondo della comunicazione passando per la porta della pubblicità commerciale veicolata dai giornali e dalle riviste e lavora con risultati eccellenti nel design pubblicitario.
Il commento che fornirà di questa sua prima esperienza è sorprendente: “ Volevano cose originali e poi non erano mai contenti; chiedevano di apportare sempre nuove correzioni finchè veniva fuori un prodotto personale: In profondità cosa significano queste parole? All’origine negli studi in cui si elabora l’immagine pubblicitaria si mettono in gioco troppa creazione e gusto individuale; circola una libertà in dosi eccessive. Ma in definitiva la pubblicità più ancora che prodotta viene subita e consumata con assuefatta passività. E ancora, la pubblicità non è tanto un progetto aperto, passibile di sempre nuove modificazioni, quanto una cosa definita una volta per tutte che poi scorre, si ripete, scompare.”
Wharol a questo punto si metterà a lavorare come artista in proprio, ma paradossalmente non lo farà per acquistare maggiore libertà ma, all’opposto per intervenire nella circolazione delle immagini piuttosto che nella loro creazione al fine di assumere in pieno la condizione dell’uomo comune, dell’uomo medio americano e così ottenere una compiuta conoscenza della comunicazione artificiale di massa.
La prima conseguenza è il rifiuto dell’invenzione. Warhol rifà ciò che è già fatto, rifà le immagini che stanno sotto gli occhi di tutti per sottrarle all’invisibilità e renderle, per una volta almeno, tanto “vedibili” da farcele scorgere e conoscere realmente. Perché è proprio l’oggetto che ci sta di continuo presente davanti allo sguardo che ci sfugge, che non arriviamo a vedere.
Un grande scrittore americano Edgar Allan Poe nell’elaborare questo concetto scrisse uno dei suoi più illuminanti racconti: La lettera rubata. Ciò che è troppo esposto si sottrae alla nostra percezione visiva: nel racconto, la lettera fortemente compromettente, posata con maligna astuzia nella piena visibilità del ripiano di una scrivania, sfugge alle ripetute ispezioni di una squadra esperta di poliziotti.
Paradosso, ma poi verità anche troppo giornaliera, esperienza comune. Ci rendiamo conto di una qualsiasi cosa, la vediamo, registriamo la sua presenza secondo la qualità e la quantità di esperienza che mettiamo in atto e spendiamo per scorgerla e per adoperarla. E nel tipo di esperienza, più di quella troppo consapevole conta invece l’esperienza fisica, corporale, insieme a quella inconscia. Ma quale esperienza riusciremo mai a compiere di fronte a un manifesto dell’autostrada, ad un’inquadratura del telegiornale, a una foto stampata sulla pagina di un quotidiano? Minima, se non prossima allo zero. Per avere una giusta visione dell’acquario, è meglio starne fuori, non essere il pesciolino rosso che vi nuota dentro.
Ecco la lezione di Wharol: nel rifarla Wharol tira fuori l’immagine dal circuito comunicativo in cui galleggia per renderla, per un momento almeno completamente presente.
Qualunque sia il linguaggio utilizzato, dalle parole alle immagini, il problema sembra proprio essere nel circuito comunicativo , nella nostra percezione e nell’esperienza che mettiamo in gioco. E allora forse è nostra la responsabilità , in quanto pesci rossi,di uscire dall’acquario!

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