Mi
occupo di comunicazione e anche di pittura. Di solito i temi sulla
comunicazione che affronto, sono quelli della comunicazione
interpersonale, dell’interazione faccia a faccia. In questi ultimi
giorni curiosamente (ma non troppo), “l’incontro” con alcuni
libri mi ha portato a fare una riflessione decisamente
stimolante sulla comunicazione di massa.
Stavo
approfondendo stili e movimenti pittorici e , mentre leggevo alcuni
testi sulla pop art, Andy Warhol, Lichtenstein, Wesselman e i
loro messaggi, ecco che riscopro nella mia libreria un testo di Mario
Perniola, professore di estetica all’università di Roma e di
Kyoto. Il titolo del libro: “Contro la comunicazione”. Il libro
di Perniola tratta della comunicazione massmediatica e la pop art si
occupa dei miti e del linguaggio della comunicazione di massa. Mi
sembra una coincidenza interessante! E soprattutto mi sembra uno
spunto per approfondire l’argomento. Insomma il procedimento è
quello dell’entrata casuale che si utilizza nel pensiero creativo.
Comunicazione
vs Conoscenza? … o Conoscenza vs Comunicazione?
Sulla
copertina del libro di Perniola è riportata questa frase: “La
comunicazione è l’opposto della conoscenza. E’ nemica delle idee
perché le è essenziale dissolvere tutti i contenuti.
L’alternativa è un modo di fare basato su memoria e immaginazione,
su un disinteresse interessato che non fugge il mondo ma lo muove.”
“La
comunicazione massmediatica, la cui influenza si estende anche alla
cultura, alla politica e all’arte, sembra la bacchetta magica che
trasforma l’inconcludenza, la ritrattazione e la confusione da
fattori di debolezza in prove di forza. Nel suo rivolgersi
direttamente al pubblico, saltando tutte le mediazioni, essa ha
un’apparenza democratica, ma è in realtà una forzatura che
omologa tutte le differenze..
Per
sostenere la sua teoria, l’autore del libro ci racconta quelle che
lui chiama tre storiette sulla comunicazione che, adesso che vi ho
incuriosito, vi riporterò fedelmente.
“La
prima riguarda un seminario sulle nuove tecnologie. Dopo quattro ore
di accesa discussione, alla quale parteciparono una ventina di
operatori culturali di varie professioni e competenze, uno di questi
esclamò, provocando un breve sconcerto fra i presenti: “ma di cosa
stiamo parlando?”. La domanda non ricevette risposta; tutti la
ritennero irrilevante e la discussione continuò per altre quattro
ore. Ripreso integralmente con la videocamera, il seminario diventò
parte di un corso di new media venduto ad alto costo in dvd.
La
seconda storietta riguarda invece la performance del capo di un
partito. Questi fece un’affermazione pubblica provocatoria e
aggressiva nei confronti di un gruppo socio-professionale, cosa che
suscitò in molti scandalo e indignazione. Dopo poche ore ritornò
sull’argomento ritrattando parzialmente la propria dichiarazione.
Il giorno dopo sostenne che la frase incriminata era scherzosa e del
tutto priva di intenzioni offensive. In serata affermò che essa
conteneva in ogni caso una parte di verità. Il terzo giorno disse
che era stato interpretato male. Nel pomeriggio aggiunse infine che
si era solo fatto portavoce di un’opinione
molto diffusa, che non condivideva. Tuttavia fu per tre giorni alla
ribalta dei mass media.
La terza
storietta ha per protagonista un tycoon dell’arte contemporanea, il
quale riuscì finalmente ad aprire nel luogo più prestigioso della
capitale la sua nuova galleria permanente, accompagnando l’evento
con una campagna pubblicitaria senza precedenti. Mosso dall’intento
di rendere davvero popolare l’arte contemporanea, raccolse in
lussuosissime sale opere di artisti di tendenze e orientamenti
quanto mai diversi, che avevano in comune la caratteristica di non
richiedere alcun intervento interpretativo: nella sua strategia
infatti, la nuova arte doveva colpire lo spettatore per il suo
carattere diretto e realistico. I visitatori della galleria, il cui
prezzo d’ingresso era considerevolmente elevato, raggiungevano così
il duplice risultato di divertirsi come in un luna park e
di partecipare a un rituale elitario.”
Ma
vogliamo, per favore, iniziare a comunicare veramente?!… Andy
Warhol ci offre un bello spunto…
Da
queste storiette si giunge alla conclusione della
trasformazione della comunicazione massmediatica, così
apparentemente democratica in ideologia, in qualcosa che trasforma
tutto in indefinito, in qualcosa in cui gli opposti si mescolano e si
confondono, in un contesto in cui tutto può essere
contemporaneamente una cosa, il suo contrario e anche tutto quello
che ci sta in mezzo.
La
comunicazione, continua Perniola, abolisce il messaggio, non
attraverso il suo occultamento, e quindi rendendolo segreto, ma
attraverso un’esposizione esorbitante e sfrenata di tutte le sue
varianti. Nel segreto c’è un contenuto da preservare; la
comunicazione invece mira al dissolvimento di tutti i contenuti.
Lascio
Mario Perniola per tornare alle mie letture sulla pop art. La pop art
(letteralmente arte popolare) prende il via da un nuovo panorama
sociale che coincide con il boom economico sviluppatosi negli USA fra
il 1959 e il 1970. Le forme espressive di questo movimento
artistico nascono prelevando oggetti e immagini da una realtà che è
quella del boom economico, caratterizzata da una forte domanda di
beni di consumo, di intrattenimento, spettacolo e cultura che portano
all’avanzare di una società sempre più omologata, in modo
esponenziale.
Erano
gli anni settanta, ora siamo nel 2005 e non siamo certo in un periodo
di boom economico. Sull’omologazione della società quanto è
cambiato? Eppure se ne è discusso tanto…. “Molto rumore per
nulla!?” (tanto per citare anche Schakespeare!)
Tornando
alla pop art Andy Warhol è certamente il più conosciuto fra gli
artisti pop. Nella mia riflessione siamo passati dalla
comunicazione attraverso le parole alla comunicazione attraverso le
immagini, di cui indubbiamente Warhol è maestro.
Wharol
entra nel mondo della comunicazione passando per la porta della
pubblicità commerciale veicolata dai giornali e dalle riviste e
lavora con risultati eccellenti nel design pubblicitario.
Il
commento che fornirà di questa sua prima esperienza è sorprendente:
“ Volevano cose originali e poi non erano mai contenti; chiedevano
di apportare sempre nuove correzioni finchè veniva fuori un prodotto
personale: In profondità cosa significano queste parole? All’origine
negli studi in cui si elabora l’immagine pubblicitaria si
mettono in gioco troppa creazione e gusto individuale; circola una
libertà in dosi eccessive. Ma in definitiva la pubblicità più
ancora che prodotta viene subita e consumata con assuefatta
passività. E ancora, la pubblicità non è tanto un progetto aperto,
passibile di sempre nuove modificazioni, quanto una cosa definita
una volta per tutte che poi scorre, si ripete, scompare.”
Wharol a
questo punto si metterà a lavorare come artista in proprio, ma
paradossalmente non lo farà per acquistare maggiore libertà ma,
all’opposto per intervenire nella circolazione
delle immagini piuttosto che nella loro creazione al fine di assumere
in pieno la condizione dell’uomo comune, dell’uomo medio
americano e così ottenere una compiuta conoscenza della
comunicazione artificiale di massa.
La prima
conseguenza è il rifiuto dell’invenzione. Warhol rifà ciò
che è già fatto, rifà le immagini che stanno sotto gli occhi di
tutti per sottrarle all’invisibilità e renderle, per una volta
almeno, tanto “vedibili” da farcele scorgere e conoscere
realmente. Perché è proprio l’oggetto che ci sta di continuo
presente davanti allo sguardo che ci sfugge, che non arriviamo a
vedere.
Un
grande scrittore americano Edgar Allan Poe nell’elaborare questo
concetto scrisse uno dei suoi più illuminanti racconti: La lettera
rubata. Ciò che è troppo esposto si sottrae alla nostra
percezione visiva: nel racconto, la lettera fortemente
compromettente, posata con maligna astuzia nella piena visibilità
del ripiano di una scrivania, sfugge alle ripetute ispezioni di una
squadra esperta di poliziotti.
Paradosso,
ma poi verità anche troppo giornaliera, esperienza comune. Ci
rendiamo conto di una qualsiasi cosa, la vediamo, registriamo la
sua presenza secondo la qualità e la quantità di esperienza che
mettiamo in atto e spendiamo per scorgerla e per adoperarla. E nel
tipo di esperienza, più di quella troppo consapevole conta invece
l’esperienza fisica, corporale, insieme a quella inconscia. Ma
quale esperienza riusciremo mai a compiere di fronte a un manifesto
dell’autostrada, ad un’inquadratura del telegiornale, a una foto
stampata sulla pagina di un quotidiano? Minima, se non prossima allo
zero. Per avere una giusta visione dell’acquario, è meglio starne
fuori, non essere il pesciolino rosso che vi nuota dentro.
Ecco la
lezione di Wharol: nel rifarla Wharol tira fuori l’immagine dal
circuito comunicativo in cui galleggia per renderla, per un momento
almeno completamente presente.
Qualunque
sia il linguaggio utilizzato, dalle parole alle immagini, il problema
sembra proprio essere nel circuito comunicativo , nella nostra
percezione e nell’esperienza che mettiamo in gioco. E allora forse
è nostra la responsabilità , in quanto pesci rossi,di uscire
dall’acquario!